Non vi posso imbrogliare. Nel senso che non ci riuscirei neppure se volessi. Basta un’occhiata fuori dalla finestra per capire che le foto di oggi non sono state realizzate oggi. Questa visita a Follina risale al 17 dicembre, quando il tempo era bello ed il cielo di un azzurro che ora sembra impossibile. Sembra un secolo fa, ma sono passati soltanto pochi giorni.
Il mio amico S* P*, che Dio l’abbia in gloria, aveva insistito: “A Follina c’è un’abbazia cistercense del 1200, una cosa preziosa”. Col tempo ho imparato a fidarmi di S* P*: se dice che vale la pena di vedere qualcosa, potete star certi che è vero.
L’abbazia ci accoglie dall’alto di una piccola collina che si eleva sul paese. Chissà perché, sono ansioso di vederla. Vi accediamo attraverso un piccolo arco sotto il quale è stata installata una stella cometa. E’ giorno e la cometa è spenta, ma ugualmente mi pare di buon augurio. Sulla destra si entra in una loggia che sovrasta un piccolo, ma grazioso giardino. Scendo per effettuare qualche ripresa perché mi pare che ne valga la pena, ma immagino quanto sarebbe bello vederlo verde e rigoglioso, in primavera o in estate.
La loggia, dalla quale si domina il giardino, la strada e la piazza sottostanti, mi colpisce per la sua struttura geometrica e per i segni che le luci allungate tracciano sul pavimento e sul muro. Scatto qualche foto, ma non vedo l’ora di entrare nel chiostro. Ho un debole per i chiostri di abbazie e conventi. Per il loro valore architettonico, certamente; ma anche per l’aria che vi si respira. Che fuori ci sia pioggia che inzuppa, o sole che cuoce, nel chiostro si è al sicuro. Non ci si infradicia né ci si scioglie.
Quei portici, ornati da colonne che ne sostengono la struttura ma lasciano passare aria e luce, sono quanto di meglio la cultura monacale sia riuscita, nel corso dei secoli, ad esprimere. Me li immagino quei frati, mentre passeggiano con il breviario in mano, mentre parlottano tra loro lodando il Signore, mentre leggono, pregano, meditano in perfetta comunione con Dio e la Natura.
Per questo la maggior parte delle foto l’ho fatta lì, giocando con la luce che trafora le colonne e si schianta sul selciato, quella stessa che regola le densità delle ombre e stabilisce la forma delle cose in aggraziati chiaroscuri. Davvero non riesco a sfuggire al fascino di queste mura che si aprono al cielo, né di quella porzione di cielo che sovrastando il chiostro sembra volersi calare dall’alto entro quelle stesse mura. “Come un pisello nel suo baccello”, direbbe un altro dei miei preziosissimi amici.
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