#357 Quella del Vajont

Non oggi, ma qualche giorno fa, sono stato a Pontesei. Molti sanno di che parlo, ma per chi non lo sapesse o non ricordasse, aggiungo che non si tratta di un paese, ma di una località. Un tempo, prima che costruissero la strada che collega Longarone a Forno di Zoldo, in quel posto c’erano dei “ponticelli” – pontesei in dialetto – che permettevano di oltrepassare il luogo, caratterizzato da pendii ripidi e passaggi esposti.

A Pontesei la SADE/Enel ci aveva fatto una diga. Non così grande come quella del Vajont, ma comunque importante. La storia di queste terre è spesso anche storia di dighe, che talvolta finisce tragicamente. Quella di Pontesei, sul torrente Maè, è particolarmente significativa perché quello che vi accadde era destinato a ripetersi, quattro anni dopo, con identiche dinamiche ma con effetti molto più devastanti, sul Vajont.

Si sapeva che qualcosa stava per accadere. I rumori sordi che provenivano dalla montagna e gli alberi che cambiavano inclinazione non lasciavano dubbi: c’era un’infiltrazione che stava erodendo la base della montagna e, prima o poi, una frana sarebbe precipitata nel lago. I tecnici diedero ordine di abbassare il livello di acqua e la frana non più trattenuta dalla pressione, accelerò il passo. Era il 22 marzo 1959 – domenica delle palme – quando alle 7 del mattino una massa di terra di tre milioni di metri cubi precipitò nel bacino di Pontesei sfiorando una corriera carica di zoldani che, nonostante la festività, stavano andando al lavoro.

Arcangelo Tiziani era zoppo. Per questa sua menomazione aveva trovato occupazione come sorvegliante della diga e così ogni mattina, domenica delle palme compresa, andava da Forno di Zoldo alla diga di Pontesei in bicicletta, per il turno di guardia. Quella mattina si trovava sulla sponda opposta del lago, in sella alla sua bicicletta, nel punto preciso dove ora c’è una lapide. L’onda superò di appena un metro la stradina, ma fu sufficiente. Il suo corpo non venne mai ritrovato.  Arcangelo fu l’unico morto di quella giornata. Si sacrificò come si sacrifica un fusibile per salvare un impianto, per avvertire chi di dovere che qualcosa non va, non funziona, che bisogna rifare i conti.

C’erano fior di professionisti sul libro paga della SADE/Enel, gente intelligente, capace, che conosceva bene il proprio mestiere. Guardando le cose con il senno di poi viene da chiedersi quanto denaro deve essere passato di mano per indurli a far finta di non vedere, di non sapere, di non capire. Ma soprattutto, qual è il limite oltre il quale degli onesti professionisti diventano degli assassini?

PS
Questo post mi è venuto un po’ tristanzuolo. Perdonate, ma non so mai cosa scriverò quando comincio a scrivere. Per riequilibrare, alle foto fatte presso la diga di Pontesei, dove tirava un vento da far ghiacciare anche i pensieri, aggiungo le ultime due, scattate presso la “Trattoria Da Ninetta”, a Mezzocanale, attorno al cui “Larin” mi sono scaldato e rifocillato sotto gli occhi severi, ma non troppo, di Tina Merlin, “Quella del Vajont”.
[Un grazie particolare va ad Adriana Lotto, autrice del libro, la quale, a sua insaputa, mi ha prestato il titolo del post di oggi].

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